Il Vin Santo del Chianti

Origini

L’origine del “Vin Santo” si perde nella leggenda.

Fu menzionato per la prima volta agli inizi del Cristianesimo, probabilmente in riferimento ad un vino utilizzato durante la celebrazione della messa. Secondo una leggenda, nel 1348 (anno in cui si diffuse la peste) un frate domenicano utilizzava l’antenato di questo vino per alleviare i dolori ai malati. Questa è ritenuta una delle ragioni per le quali quel nettare veniva ritenuto miracoloso, e di conseguenza “Santo”.

La tesi più celebre, fa risalire il nome Vin Santo all’anno 1439, durante un concilio ecumenico avvenuto a Firenze, presso il Papa Eugenio IV, con l’intento di riunificare la Chiesa di Oriente con quella di Occidente dopo il grande scisma. In quell’occasione fu organizzato un banchetto dai Medici e fu servito un vino passito: il Cardinal Bessarione, Vescovo di Nicea, esclamò Hoc Xanthos est!ovvero che si trattasse di un vino “xanthos”, letteralmente “biondo” come certi passiti, o perché aveva lo stesso sapore di un vino prodotto sull’Isola di Xanto/Santo (Santorini, Grecia); questo fu subito assimilato dai partecipanti in latino con l’aggettivo “sanctus”, “santo” appunto. Altre persone ritengono invece che l’origine della parola debba essere associata al ciclo di produzione di questo vino che è da sempre intrecciato e scandito con le maggiori festività del calendario liturgico cristiano.

La “D.O.C.”

Il Vin Santo del Chianti è dal 1996 un vino a Denominazione di Origine Controllata generalmente prodotto a partire da uve bianche e talvolta rosse, appassite, attraverso un delicato processo naturale di disidratazione ed una lunga maturazione in botti di legno.

Secondo il disciplinare del Chianti, deve invecchiare per almeno 3 anni in piccole botti di legno, spesso di variegate essenze, localmente chiamate “caratelli”, dove fermenta con numerosi cicli stagionali ed affina contemporaneamente. Nella versione “Riserva”, questo procedimento di elevazione deve durare almeno 4 anni.

Le uve

Tradizionalmente il Trebbiano Toscano e la Malvasia Bianca lunga del Chianti, sono le uve bianche autoctone più utilizzate e considerate adatte per alla sua produzione.

Per legge queste devono raggiungere, unitamente o individualmente, almeno il 70% del blend; talvolta vengono assemblate con altre uve locali quali il San Colombano o il Canaiolo bianco, o lo stesso Sangiovese, che non può comunque superare il 30% nella versione classica.

Laddove invece il blend superi almeno il 50% di presenza di uva Sangiovese, si può denominare il prodotto come “Vin Santo Occhio di Pernice d.o.c.”

add_a_photo Martino Dini

L’appassimento

Dopo un’attenta selezione dei grappoli in pianta, i cosiddetti “scelti”, l’uva viene raccolta manualmente in piccole cassette e trasportata nella “Vinsantaia”, un luogo chiuso dell’azienda che solitamente è ben posizionato e ventilato. Questo spazio corrisponde tradizionalmente al sottotetto, nelle stanze adibite per secoli allo stoccaggio di alcuni materiali e cibo essiccato, assieme alle cantine sotterranee.

Questi particolari luoghi sono naturalmente sensibili agli elementi esterni, in particolare agli sbalzi termici ed all’aria, che il produttore lascia sapientemente entrare aprendo tutte le finestre. Questi locali, del tutto privi di controllo della temperatura, sono perciò piuttosto asciutti e riflettono molto le temperature esterne, siano esse calde o fredde.

I principali metodi di appassimento sono due: lasciare distese le uve su un intreccio di stuoie, dialettalmente chiamate “cannicci” o “graticci” a seconda delle zone, oppure appenderle a dei sostegni: i punti fondamentali per un buon risultato sono la circolazione dell’aria intorno ai grappoli e dunque l’appropriata distanza tra gli stessi.

Questa lenta e delicata disidratazione, che inizia nel mese di settembre, può durare dai 3 ai 6 mesi.

Durante questi mesi il produttore si premura dell’evoluzione dei grappoli, avendo attenzione di eliminare quelli eventualmente ammuffiti o con elementi estranei, scattivandoli oppure rovesciandoli nel caso di quelli disposti sulle stuoie.

Vinificazione ed invecchiamento

Una volta terminato l’appassimento, i grappoli vengono accuratamente ispezionati affinché non rimangano frammenti di raspo, chicchi rotti o ammuffiti, polvere e impurità in genere, e infine spremuti con delicatezza. Il mosto ottenuto è approssimativamente da ⅓ a ¼ del peso dei grappoli ed è normalmente molto denso e concentrato in zuccheri.

Dopo una parziale decantazione, il mosto viene introdotto nei già menzionati caratelli, solitamente collocati nel medesimo ambiente di appassimento.

Questi piccoli e particolari fusti di legno hanno sovente caratteristiche singolari: di piccola capacità (tra i 50, 70, 100 litri, più raramente 200), sono spesso molto vecchi (anche non di rado centenari) e sono composti da essenze oggi inusuali, comunemente di castagno, ciliegio, acacia, gelso, e solo in piccola parte rovere.

I caratelli vengono colmati lasciando una misura di aria all’estremità, e sigillati, spesso con cemento.

In considerazione dell’alta concentrazione di zuccheri nel mosto, i lieviti che abitano sia i barili che l’ambiente della Vinsantaia, iniziano a consumarli lentamente nei freddi dell’inverno, generando dunque la fermentazione alcolica. Ecco dunque che si rivelano decisive le condizioni atmosferiche esterne, nell’evoluzione del Vin Santo: il freddo rallenterà le fermentazioni, il caldo invece le risveglierà fino al tumulto. Il vino accompagna così il corso delle stagioni per anni, come in un immaginario lunghissimo minuetto.

Questo processo è marcato anche da un fattore altrettanto rilevante di ossidazione in quanto, essendo le piccole botti in ambienti ventilati, con l’invecchiamento tendono a ritirare le loro doghe lasciando penetrare aria e dunque ossigenare il vino all’interno, condizionandone ulteriormente l’evoluzione.

Naturalmente l’utilizzo stesso dei caratelli è determinante nel donare speciali attributi al Vin Santo: ogni botte di fatto, è unica ed ha un sistema di fermentazione proprio.

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Stappatura dei caratelli

Dopo aver raggiunto il minimo di anni richiesto dal disciplinare di produzione rispetto alla maturazione del vino, i caratelli possono essere stappati ed i prodotti in essi contenuti essere accuratamente assaggiati al fine di verificarne gusto e qualità. Alcune botti avranno gusto secco o semi secco se i lieviti avranno completato il loro lungo lavoro di digestione degli zuccheri; altre botti potrebbero invece avere gusto dolce o semi dolce se questo processo non ha terminato ancora il suo svolgimento; altre ancora possono aver subito un ammuffimento del prodotto o addirittura essere evaporate nel suo contenuto.

Finalmente viene completato un blend di tutti i vini contenuti nei caratelli, e questo sarà definitivamente l’assemblaggio e stile che il produttore darà al suo vino, che potrà ora essere travasato, filtrato, nuovamente decantato ed infine imbottigliato come “Vin Santo del Chianti d.o.c.” con ancora lunghissimi anni di evoluzione in bottiglia.

Vin Santo: icona del patrimonio toscano

Un vino eccezionale, prezioso, unico, che richiede una lunga e precisa accuratezza in ognuna delle sue fasi di elaborazione. Ma soprattutto, rappresenta il vino dell’ospitalità e dell’amicizia in Toscana, dove è da sempre tradizionalmente abbinato ai più importanti avvenimenti della famiglia.

Oggi piuttosto dolce, ieri piuttosto secco, il Vin Santo del Chianti d.o.c. è senza dubbio un vino sorprendente ed unico per svariati aspetti. Con i colori dell’oro e dell’ambra, ipnotizza già alla vista, come un piccolo scrigno di luce propria.

Al naso, è di un altro mondo! Una vasta e mutevole gamma di aromi pervade intensamente con sorprendente concentrazione ed intensità: note di frutta gialla secca, come albicocca e uva passa, ma talora più dolce, come di fichi e datteri; sfumature di miele, a volte più fini e profumate come quello di acacia, a volte più resinose e balsamiche, come quello di eucalipto. Sbuffano in sottofondo, un po’ di richiami volatili alcolici che ricordano i solventi ed alcuni liquori; più inconsueti ma palesati, degli accenni agrumati e di canditi.

In bocca, il Vin Santo è un millefoglie di strati di gusto. Più che berlo, lo si legge con la lingua, come fosse un libro masticabile. Pieno, vischioso, caldo, intenso e persistente, tutto giocato su contrasti e volumi perfettamente combacianti. Può essere “schiaffo” con talune sue note ossidative amaricanti, di mallo di noce e acetiche, e allo stesso tempo “carezza”, con la sua spontanea grassezza e piccole speziature dolci.

La sua irripetibilità di gusto, il suo sorso setoso ed avvolgente, di rara complessità: è senz’altro la più alta espressione liquida di toscanità.

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Le tipologie di Chianti